Reportage. I luoghi della pace. Il Camposanto di Pisa
Non è facile descrivere l'atmosfera di un cimitero monumentale. Il silenzio sembra corrispondere a mille voci che narrano l'esistenza e il suo compimento nel ricordo. Ma queste sensazioni si confondono con la nitida bellezza lirica delle opere d'arte che adornano grandi cattedrali all'aperto sulle quali svettano, dalla terra, grandi manufatti lapidei scolpiti nel pathos del perenne sonno. Sono segni di pace, di fronte ai quali la coscienza trova sempre nuove ragioni di profonda riflessione.
Nel mondo sono moltissimi.
Anche in Italia sono tanti e famosi: da Nord a Sud della penisola, da Pisa a Salerno, da Bologna a Catania, da Firenze a Napoli, da Palermo a Perugia.
Con questo primo articolo inauguro una serie di "pezzi" sui "Luoghi della Pace", una sorta di reportage tenacemente voluto dall'impresa onoranze funebri Filippo Polistena, per narrare, attraverso cenni, la straordinaria qualità e la contiguità delle opere d'arte con il mistero della morte.
In quest'occasione presento il "Camposanto" di Pisa.
Il "Camposanto" monumentale di Pisa è davvero tra i più famosi al mondo: tra l'altro, conserva l'affresco di Buonamico Buffalmacco, vissuto tra il 1290 e il 1340, intitolato "Trionfo della Morte" e che forma un trittico assieme ad altri due elementi che lo compongono, la "Tebaide" o "Storie degli Anacoreti" e "Il Giudizio Universale e l'Inferno": nell'insieme costituiscono e segnano, come elementi paradigmatici, la lunga stagione dello stile gotico nel nostro Paese.
Quest'opera ha anche una storia particolare che tocca l'età contemporanea.
Infatti, durante il penultimo anno di guerra, nel 1944, precisamente nel mese di luglio, una granata colpì il "Camposanto" provocando un incendio devastante.
Il tetto, andando a fuoco, subì lo scioglimento del piombo che lo rivestiva, materia che liquefacendosi intaccò l'edificio sottostante e quindi, tra gli altri, gli affreschi trecenteschi del Buffalmacco, figura peraltro nota anche per essere tra i protagonisti "goliardici" di alcune novelle del "Decameron" di Giovanni Boccaccio.
Solo dopo un complesso restauro si può oggi ammirare questa mirabile narrazione pittorica.
Qui, l'espressione artistica si pone nella scia dell'antico "memento mori" in un'epoca che vede il collasso e la crisi dei fondamenti dello sviluppo economico e sociale impetuoso che tra l'anno Mille e i secoli successivi trasformò il continente europeo e l'Italia in particolare: la penisola non tornò mai a essere così ricca e potente come nei secoli che attraversarono anche il "triste" Trecento delle carestie dovute al manifestarsi di un lungo periodo di abbassamento delle temperature - la prima grande crisi climatica - e delle "pesti" che decimarono, a ondate, mezzo continente.
Eppure, l'arte continuò a raccontare quegli eventi e quei sentimenti.
Le trasformazioni socio-economiche, in quel secolo, si caratterizzarono per una forte concentrazione nelle mani di grandi famiglie mercantili, mentre la produzione veniva sempre più parcellizzandosi e specializzandosi, tuttavia impoverendo il ceto proletario che diede sfogo alle cosiddette grandi rivolte trecentesche: quella dei "Ciompi", a Firenze, nel 1378, fece clamore.
Ma non basta: la crisi investì la Chiesa e le sue tradizioni ataviche: dallo "schiaffo di Anagni" fino alla "Cattività Avignonese" e poi il "Grande Scisma" che sforò fin dentro il successivo XV secolo.
Così, nel suo affresco, Buonamico Buffalmacco riesce a cogliere e unificare lo stile gotico "cortese" della vita gaudente delle classi sociali più elevate con la "livella" implacabile della morte che accompagna come un'ombra quegli anni insoliti e tragici.
Un vero e proprio "manifesto" del '300.
E lui, questo pittore sconosciuto ai più, chi era?
Ne parla Giorgio Vasari il quale ne "Le Vite" ricorda l'animo da gran compagnone del pittore: «Non fece mai la natura un burlevole e con qualche grazia garbato, ch’ancora non fosse a caso e da straccurataggine accompagnato nel viver suo. E nientedimeno si truovano alle volte costoro sì diligenti, per la dolcezza dell’amicizia, nelle comodità di coloro che amano, che per fare i fatti loro il più delle volte dimenticano se medesimi.»
Ma non c'è solo l'opera del Buffalmacco: ogni parte del "Camposanto" è rappresentazione artistica ed esaltazione architettonica, tanto da fare pronunciare a uno degli scrittori più famosi del primo novecento italiano, Curzio Malaparte, una frase rimasta scolpita nella memoria:
«Il Campo Santo di Pisa: il solo camposanto che sia al mondo, tutti gli altri son cimiteri.»
Non a caso, il luogo di riposo è stato anche definito "Cappella Sistina dei pisani" ovvero "Pantheon di Pisa", poichè le più eminenti figure della città - ricordo tra i tanti il grande matematico Leonardo Fibonacci - vi trovarono dimora perpetua.
Lo dimostrano le cappelle Ammannati, Dal Pozzo e Aulla ma anche le decine di sarcofagi di fattura romana reimpiegati per accogliere spoglie illustri.
Egualmente, i grandi maestri delle arti dell'epoca ebbero modo di lasciare segni indelebili delle committenze ricevute, anche se molte sono le attribuzioni di bottega, come era d'uso in quel torno di tempo dopo le innovazioni giottesche nei modelli di produzione: seguaci di Giovanni Pisano, opere della bottega di Andrea di Francesco Guardi, e ancora Taddeo Gaddi, Andrea di Bonaiuto, Spinello Aretino, Antonio Veneziano, Piero di Puccio, Benozzo Gozzoli, Zaccaria Rondinosi, Francesco di Traino o Traini, Biduino, Cellino di Nese, Giovanni della Robbia, Agostino Ghirlanda, Aurelio Lomi.
Si tratta di nomi celebri al tempo e tutt'ora figure di primo piano nella storia dell'arte.
Uno scrigno prezioso, oggetto di giustificato e notevole interesse da parte dei cultori e degli appassionati, ma anche degli studiosi che vi ritrovano vestigia antichissime e preziose.
Il "Camposanto" di Pisa è dunque un grande, insolito luogo di pace che onora e accoglie l'arte.
E ci rammenta quanto la rappresentazione artistica sia, in gran parte, immagine lirica e monumento alla morte.
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