'Volli, sempre volli, fortissimamente volli'
La frase è celebre: risale al 1783, contenuta nella "Lettera responsiva a Ranieri de’ Casalbigi" che scrisse il poeta e tragediografo italiano Vittorio Alfieri. È il primo richiamo che m'è sovvenuto ascoltando, dalla figlia Eleonora, alcuni ricordi sulla vita di Antonino Di Giacomo, ematologo di chiara fama, a lungo primario al presidio ospedaliero "G. Jazzolino” di Vibo Valentia, recentemente scomparso. Una vita spesa nello studio e nell'applicazione medica, sorretto da una volontà ferrea e da una risolutezza che lo rese capace di sollevarsi dalle umili origini in terra di Sicilia fino ai vertici della professione in Calabria, nell'antica Monteleone che fu per lui, dopo la natia Messina, una "seconda patria".
Negli anni '60, in Italia, l'ematologia era una materia sulla quale il dibattito scientifico e clinico era molto vitale e controverso: tuttavia, si erano già affermati gli studi di Edoardo Storti, allievo di Adolfo Ferrata (Pavia), luminare dell’ematologia italiana e caposcuola della materia con Giovanni Di Guglielmo a Roma e Ferdinando Micheli a Torino.
E poi, come non rammentare il nome altrettanto illustre di Franco Mandelli al quale sono legati protocolli utilizzati in tutto il mondo per la cura di gravi neoplasie del sangue.
Intraprendere questa specializzazione, fondata sulle attività di laboratorio, richiedeva non solo una straordinaria passione ma anche una fermezza d'animo non certo comune.
Anche perchè gli studi ematologici già premevano per portare a nuovi risultati nell'esperienza clinica, nella cura di malattie irreversibili destinatarie di effetti esiziali.
Basti pensare alla beta-talassemia, la tristemente famosa "anemia mediterranea" che in quegli anni mieteva vittime specialmente nelle regioni meridionali del Paese.
Solo alla fine degli anni '40 gli studi di Ezio Silvestroni e Ida Bianco - nella foto - aprirono varchi importantissimi nell'identificare la relazione tra anemia falciforme e talassemia intermedia.
Ebbene, Antonino Di Giacomo è stato tra i più attivi nell'occuparsi di questa difficile branca della medicina.
Proveniva da una famiglia umile nella quale, tuttavia, i valori fondanti della disciplina e dell'impegno nello studio erano ben radicati: Antonino non fu il solo tra quattro fratelli a ottenere risultati tangibili.
Ma quanta fatica: al liceo non può permettersi i libri come i suoi compagni e studia facendoseli prestare o ricavandone copie.
Dunque, volontà e carattere.
Quest'ultimo è il segno che emerge dal suo sfidare gli eventi, farsene protagonista in modo propositivo, avvinto da un'ottimismo contagioso e da una lucida serietà d'intenti.
Tant'è che il suocero di Antonino, stimato medico a Nicotera, si sentì moralmente impegnato a far conoscere le qualità di quel giovane genero già laureatosi a Messina nei primi anni '60: ai primordi della carriera, Di Giacomo era destinato a una sede prestigiosa, nella Torino del già citato Ferdinando Micheli.
Ne è grato e sa bene di essersela meritata senza fare sconti a se stesso.
Eppure, sospinto dal viscerale attaccamento per la sua terra, la natia Sicilia, e ormai per quella che considerava la sua patria adottiva, la Calabria, regione d'origine della moglie, consapevole della portata rilevante di una decisione che avrebbe mutato il corso della sua vicenda professionale e quindi della sua vita, rifiuta l'incarico.
Già, Antonino rifiuta, anzi sceglie diversamente.
Ecco cosa intendevo per "carattere" oltre che per "volontà".
Il carattere di un uomo che ha sempre voluto conciliare la vita con la libertà di deciderla.
Senza timori, senza incertezze.
La sfida è aperta.
Gli anni sono quelli che si possono definire pionieristici, in una regione che lascia prevalere ancora vaste condizioni di arretratezza, sia culturale che materiale: il riconoscimento professionale occorre guadagnarselo sul campo.
O sei bravo o vieni presto segnato.
Ma Antonino è davvero un medico di spessore.
Si occupa di malattie difficili, misteriose.
E cura, cura tutti, non lascia indietro nessuno.
E lo fa a lungo, restando all'ospedale di Vibo fino al 2009, fino al compimento dei 70 anni.
La sua vitalità, la sua schiettezza, gioviale e severa allo stesso tempo, limpida, indubitabilmente sincera, rappresentano i tratti coerenti della sua personalità.
Gli occhi, in particolare, vispi e sempre vigili, mai sfuggenti, sorridenti, accoglienti e smaliziati, rivelano la sua chiarezza d'animo.
Gli stessi occhi che sanno cogliere gli scenari naturali attraverso l'obiettivo della macchina fotografica, come nell'immagine d'apertura: è un tramonto che lascia tracce diffondendosi in un'atmosfera baluginante, epigono di un annuncio lontano eppure presente alla coscienza.
Come se l'immagine fosse simbolo di una voce: "vivi intensamente più che puoi, coltiva questa volontà che ti appartiene, non indugiare ma avanza sempre".
D'altra parte, la sua "coppola", il tipico berretto siciliano, perennemente indossata, è quasi l'armatura del combattente, il segno distintivo, il suo esserci nel mondo.
Così, la passione per lo studio incessante della medicina e l'impegno vigoroso per l'attività clinica, va di pari passo con quella per la fotografia e lo slancio verso l'equitazione e il motociclismo.
E l'entusiasmo per i viaggi, occasioni per esercitare la sua acuta curiosità, da condividere pienamente con la famiglia e con gli amici più cari.
I viaggi: allontanarsi per godere appieno del ritorno.
Una personalità eclettica, talvolta imprevedibile perchè aperta alla vita con la smania e l'impeto di chi ne conosce la finitezza, il limite oltre il quale il mistero della morte è muto congedo.
Il suo studio, a casa, appare esempio della sua indole: si nota la semplicità e la mancanza di ostentazione, l'attaccamento alle tradizioni, un evidente "ordine concettuale" nel modo di disporre gli oggetti, la scelta non casuale di una stanza ricca di sole.
Capisco, osservandola, l'amore di Antonino Di Giacomo per il Meridione, per queste terre di meravigliosa luce e struggente bellezza.
Che ha assorbito e fatto riflettere nei suoi occhi fino all'ultimo istante.
Lui che la vita e la morte le ha vissute negli occhi dei suoi tanti pazienti, forse avrebbe apprezzato una frase dalle "Rime" del già evocato Vittorio Alfieri:
"Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda,l’adunca falce a me brandisci innante?
Vibrala, su: me non vedrai tremante
pregarti mai, che il gran colpo sospenda."
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