Il secondo giorno di Novembre tra arte morte ombra e rito
Il titolo di quest'articolo fa risuonare il titolo del blog che lo ospita: voluto da Filippo Polistena, si tratta di un blog di racconti sulla relazione tra il mistero insuperabile della morte e l'arte che ne fa da riverbero, tra la forma che non può apparire se non in un'ombra e il rito che evoca l'ombra e tenta di darle una forma pensabile, qualcosa che si possa intravedere in un'invocazione ripetuta nel tempo. Ecco, in sintesi, cosa significa il rinnovarsi del secondo giorno di Novembre nella nostra tradizione cristiana e occidentale.
Per la stessa ragione, i cimiteri, i luoghi dell'ultima dimora, sono la rappresentazione materiale della morte e dell'arte nelle sue forme architettoniche, plastiche e bidimensionali della rappresentazione.
Ma sono anche i luoghi nei quali la vicinanza con lo spirito delle ombre appare più netta, percepibile.
Ma sono anche i luoghi nei quali la vicinanza con lo spirito delle ombre appare più netta, percepibile.
Indicano il senso di un legame che non si spezza, oppure che si rinsalda nel rito dell'incontro silenzioso con le tombe che ospitano gli esseri umani trasformati in materia inerte: si appellano come scomparsi ma per nessuno di coloro che rimangono essi sono scomparsi del tutto.
Alla vista e agli altri sensi lo sono.
Eppure, se nella geometria einsteiniana esiste una quarta dimensione, il tempo, così non è inconsueto pensare a una quarta dimensione della vita, qualcosa che non si può scorgere perchè infinitesima quanto l'energia sub-atomica.
Non si può vedere, eppure studi recenti stanno percorrendo strade davvero incredibili nelle quali fenomeni fisici di natura "quantica", inspiegabili secondo i concetti scientifici causali e deterministici, sembrerebbero invece essere alla base della vita di ogni organismo vivente.
Come sempre, l'arte ha il potere arcano di intuire e di scommettere sulla sua irrefrenabile esigenza di rappresentare percezioni come questa, in specie nell'arte contemporanea che alla costante ricerca della forma impossibile.
E in questa scia è accaduto per l'incessante relazione tra l'opera artistica e il dramma della morte.
Ma procediamo con ordine.
Le fonti riferiscono che la commemorazione dei morti abbia avuto la sua origine nella chiesa cristiana d'oriente, mentre nella chiesa d'occidente, l'evento rituale, per secoli definito Anniversarium Omnium Animarum, si fa risalire a Odilone di Cluny, quinto abate del celebre monastero francese che ricoprì la carica a cavallo tra il primo e il secondo millennio dell'era cristiana, tra il 994 e il 1048.
Nella biografia dell'abate si narra di un monaco che riferì un racconto a sua volta appreso da un eremita dell'isola di Vulcano: lì, anime tormentate dai demoni, avrebbero trovato pace grazie alle preghiere pronunciate nella venerata abbazia in terra d'oltralpe.
Ma il rito ha origini ancestrali: appartiene alla civiltà umana fin dalle sue prime espressioni.
Tuttavia, per non divagare, occorre chiedersi quale sia la natura del rito nella cultura cristiana e quindi occidentale.
La risposta è: la salvezza delle anime dei defunti che in vita non abbiano espiato tutte le colpe.
Allora, la preghiera e la commemorazione, quindi la messa in suffragio, costituiscono la possibilità della loro beatitudine nel mondo delle ombre.
Dunque, tutto si correla: la comunione con i Santi e la resurrezione della carne sono i cardini sui quali si fonda il rito: nel primo caso si tratta della relazione con il divino, con il trascendente; nel secondo caso si tratta di pensare l'anima nella condizione di attesa del corpo che risorgerà alla fine dei tempi.
Quella cristiana è, indubitabilmente, religione dei corpi.
Certo, esistono stridenti dispute teologiche, anche molto intense, sul tema dell'Inferno e sulla sua natura di luogo di perenne pena: se è condanna assoluta, la preghiera è inefficace.
Altrettanto è l'amore di Dio che dovrebbe, invece, essere sempre salvezza.
In questa prospettiva, si ritiene che le origini pagane della relazione tra i vivi e i morti siano state riassorbite nella struttura dei riti religiosi e quindi anche del cristianesimo nella sua versione latina.
Di certo, la "Commedia" dantesca non è estranea a questo modello culturale, avendone introdotto la forma rappresentativa attraverso la parola poetica e quella dell'immagine: Giovanni Boccaccio da rinomato lettore "pubblico" dei versi danteschi fu tra i primi a raccontare in disegni figurativi le vicende ed i personaggi di alcune delle cantiche più famose.
Nella Biblioteca Riccardiana a Firenze è conservato un manoscritto realizzato proprio da Giovanni Boccaccio, la terza corona della letteratura italiana, appartenuto a Bartolomeo di Benedetto Fortini: nel testo sono presenti sette disegni decorativi del Boccaccio.
Come dichiarato all'inizio, questo non deve sorprendere: l'arte figurativa ha ripetutamente posto il tema della morte e del rapporto tra la vita e la finitezza come inesplicabile e inesorabile destino.
A cominciare dalla morte e resurrezione di Cristo, per rimanere nei confini di questa trattazione sull'occidente e il culto dei morti.
Le opere sono innumerevoli.
Occorre fare una scelta, necessariamente arbitraria: "Il Cristo morto" del Mantegna, databile tra la metà degli anni '70 e i primi '80 del Quattrocento, ora conservato nella Pinacoteca di Brera;
"La deposizione di Cristo nel sepolcro" di Tiziano, realizzato tra il 1570 e il 1573 e ora conservato nella Pinacoteca Ambrosiana;
"La deposizione" del Caravaggio, datato tra il 1602 e il 1604, conservato nella Pinacoteca Vaticana.
Si tratta di tre rappresentazioni che pur appartenendo all'arte sacra, esaltano l'umana caduta nell'abbandono della morte, vera morte, espressa con la pesantezza del corpo inerte, del Dio fattosi carne: siamo nel cuore della concezione cristiana.
Che tuttavia, deve marcare il segno conseguente con la "Resurrezione": mi limito a un confronto tra due opere, la prima del '400, il secolo degli artisti-filosofi, con l'affresco di Piero della Francesca, di esecuzione incerta intorno alla metà del secolo, conservata nel Museo Civico di San Sepolcro in provincia di Arezzo; la seconda con il dipinto di Paolo Veronese "La Resurrezione di Cristo" del 1570, conservato nella Gemaldegalerie di Dresda.
Per commentarle cito uno dei miei testi, "Sguardi sull'arte Libro Secondo", 2021:
«Due modi d'interpretare, non solo il tema religioso ma il proprio tempo: simbologie opposte.
Il Cristo di Piero della Francesca è una rappresentazione di onnipotenza disincantata, la forza della verità che si erge, maestosa eppure solitaria e rassegnata, lascia dietro di sé le tracce del mondo sconfitto dalla sterile condizione dell'umanità immersa nel sonno della ragione.
Risorgere potrebbe apparire inutile. Eppure, è il segno potentissimo che rivela la radicalità della scelta, tra salvezza e morte.
Al contrario, il "Risorto" di Paolo Veronese è trionfante, posseduto dalla mistica ascesa al cielo, ormai incurante delle vicende terrene, come un dio pagano si erge al di sopra della materialità e delle miserie umane, avvolto nella luce che acceca e spaventa, mentre l'angelo sul fondo, in una scena lontana, indica alle pie donne il compimento del disegno divino.
Il primo è un Cristo messaggero che invita gli uomini a destarsi per contemplare la dualità della storia e la necessità della scelta. Ed un Cristo che imprime la sua "auctoritas" sulla realtà terrena in una plateale, solida fissità capace di suscitare un ineluttabile moto di conversione.
Il secondo è un "redentore" che offre il mistero della sua resurrezione come implacabile superiorità del divino sull'umano, come luce sulle tenebre, come leggerezza che vince la "gravitas" dell'esistenza terrena.
Ma che guarda in alto. E si lascia contemplare nella sua apoteosi.
Due narrazioni della cristianità, opposte, inconciliabili.
Tra la severità che accoglie e l'alterità che allontana.»
Ma se il sacro e quindi la "morte sacra" è nell'arte una presenza permanente e mai davvero scontata nella figurazione, il tema segna il solco anche in interpretazioni mondane, laiche eppure egualmente potenti: cito la "Danza macabra" di Bernt Notke, risalente all'ultimo quarto del '300, pervenuto in un frammento di sette metri dell'originale perduto, conservato nella basilica di San Nicolò a Tallinn in Estonia.
Si tratta di un modello di figurazione che echeggia i drammi del '300, il secolo della "peste nera", delle guerre e delle carestie: la morte livella ogni ceto, non ha riguardi.
Come nei "Trionfi" della morte che anche in Italia si trovano in affreschi nel cimitero monumentale di Pisa (opera di Buonamico Buffalmacco, datata 1336 -1341) e a Palazzo Abatellis a Palermo (anonimo del secolo successivo).
Allora è evidente quanto il tema debba necessariamente prestarsi a una lettura complessa, che include il rito ma non dimentica l'ombra: lascia un'alea di mistero con la quale ogni essere umano si trova a fare i conti, a ricercare oltre il rimedio della fede.
Forse, alla maniera "greca" spesso richiamata dallo psicoanalista e filosofo Umberto Galimberti:
«Prendere sul serio la morte ti dà il senso del limite. Il fondamento etico per i greci non sta nei comandamenti, ma nel senso del limite. Non oltrepassare il tuo limite, altrimenti prepari la tua rovina.»
Tuttavia, questo modello di pensiero, questa dimensione incombente del limite, non è estranea alla percezione comune nell'occidente cristianizzato.
Appartiene al rito che conosce la sobrietà, il silenzio, la meditazione, la rassegnazione.
In questo senso, la relazione tra vanità mondana e il classico "memento mori" latino, tra la dimenticanza e l'apparente indifferenza verso la condizione ineluttabile dell'essere "mortali", ha percorso tutta la successiva storia dell'arte, attraversando ogni epoca fino a produrre un rispecchiamento estetico molto accentuato in età romantica e dunque lungo il corso dell'Ottocento e fin nelle viscere del '900.
Qui le citazioni sarebbero a dir poco abbondanti.
Mi limito a coglierne solo alcune, significative.
Facendo innanzitutto cenno alla figura del trapassare, del viaggio, della soglia superata.
Mi riferisco al suggestivo "L’isola dei morti", seconda versione, giugno 1880, di Arnold Böcklin, conservato al Moma di New York, dipinto la cui essenza potrei proporre in un aforisma:
«Il silenzio della memoria è un "essente": presenza muta che impone lo spirito del tempo, impercettibile eco di un passaggio, suggestione profonda, rarefatta, indecifrabile.
Come apparizione in attesa di essere.
Ancora.
Attraverso colui che osserva.
Vivendogli addosso, dentro.
Per un'altra vita.»
Poi mi sovviene un testo pittorico di John William Waterhouse, uno dei "preraffaeliti": "Il sonno e la sua sorellastra la morte", risalente al 1874, collezione privata, che rammenta la profonda relazione, esplorata fin dall'antichità, tra l'oblio di un corpo addormentato e lo stato di morte.
Rammento a questo proposito il celebre frammento 26 di Eraclito, nella traduzione di Giorgio Colli:
«Nella notte l’uomo accende una luce a se stesso, spento negli sguardi, e vivendo si afferra al morto; sveglio si afferra al dormiente»
E ancora, una litografia di Charles Allan Gilbert, "Tutto è vanità", del 1892, la cui rilevanza metaforica è rimasta talmente pregnante da essere stata reinterpretata nella pubblicità e sulle copertine di produzioni discografiche contemporanee.
E per concludere questo volo pindarico, faccio riferimento a due opere: "I tre teschi" di Paul Cézanne, conservato al Detroit Institute of Arts, datato 1900 e non l'unico con questo tema nella produzione del celebre artista francese.
L'evidenza di un simbolismo iconico del teschio umano non ha mai smesso di perdurare nei secoli.
Poi, la "Cappella Rothko", opera architettonica e artistica che si trova a Houston in Texas, realizzata tra il 1964 e il 1971.
Qui, in un'atmosfera di raccoglimento, osservando le gigantesche tele del celebre pittore, accade un miracolo laico intriso di una profonda valenza religiosa, fino al misticismo.
L'autore riesce a dare vita alla visione spirituale nuova di uno sfondo antico, laddove il colore è illusione che si sfrangia, diluisce, si scioglie e si ricompone senza un termine: l’impatto visivo di una voce che essa stessa implora l’impossibile.
Con le opere di Mark Rothko accade un dialogo tra Dio e l’uomo che possiede un carattere biblico, tuttavia connotato da uno struggente anelito, quello dell’essere umano verso il trascendente e, paradossalmente, del trascendente verso l’essere umano.Si tratta di un ritorno all'iconicità della pittura sacra.
La voglio spiegare così:
«Prigionieri di due mondi separati, sacri, appunto, l’essere umano e l’oltre-umano si guardano attraverso una barriera sottile, la tela: essa, come uno specchio, riflette l’immagine e la somiglianza dello spirito che accomuna l’uomo a Dio.»Così, senza una vera determinazione concettuale, rinasce l’arte sacra in Occidente.
Dunque rimane vitale, direi indissolubile, la connessione che annoda l'arte alla morte, l'ombra al rito.
E per questa via, tutte accomunate nella commemorazione religiosa dei defunti che si rinnova ogni secondo giorno di Novembre.
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