Il valore dell'integrità
Mentre ascoltavo, nel ricordo commosso della moglie, la Sig.ra Maria Luisa, alcuni cenni sulla vita di Mario Chiaravalloti, medico di alto spessore umano e professionale, ha preso traccia in me una comparazione sorprendente, quella con Ernesto Guevara, il mitico "Che" della rivoluzione cubana. Ho pensato a uno di quei casi di associazione mentale tra due distinte idee che non possiedono alcuna relazione logica. Capita. Tuttavia, la profonda dedizione alla professione di medico e il radicato, inviolabile rispetto per il prossimo, la fermezza nell'organizzazione del lavoro sentito come missione verso chi soffre, hanno reso meno incerta questa relazione. Peraltro, anche il "Che" è stato medico e severo, irreprensibile organizzatore di eserciti di liberazione. D'altra parte, Mario Chiaravalloti, da specializzato ed esperto in quella che agli albori si chiamava "Igiene e Tecnica Ospedaliera", è stato un instancabile manager in "Clinical Governance", la direzione sanitaria, settore delicatissimo e di enorme responsabilità. Condotta con nitido e non comune rigore.
Così, seppur lentamente, ripensando al suo profilo biografico, la comparazione ha preso forma.
Me lo sono figurato nelle sue giornate, lunghissime, al lavoro tra i reparti, al pronto soccorso piuttosto che alle prese con i casi della "chirurgia d'urgenza".
E poi, naturalmente, nelle sue funzioni di direttore sanitario, lui che, originario di Polia, classe 1935, laureatosi a Messina, fece la specializzazione nell'austero mondo ospedaliero del nord Italia, a "Le Molinette" di Torino.
L'ho immaginato a proprio agio anche lì, in quella che formalmente è la prestigiosa Azienda Ospedaliero Universitaria San Giovanni Battista, per un'autorevolezza innata che trovava naturale riflesso anche nel suo carattere schivo e riservato, serio e accurato nello studio e nella pratica quotidiana.
Niente fronzoli e nessuna retorica: impegno assiduo e passione coscienziosa, fattiva, efficace.
Condotta in ogni sede ospedaliera: dal celebre "Tiberio Evoli" di Melito Porto Salvo, l'ospedale nel quale prese avvio la sua carriera e che al tempo era uno dei più importanti della Calabria, al successivo trasferimento nel presidio sanitario di Lamezia Terme.
Poi, nella seconda metà degli anni '70, l'avventura, intensa, quasi viscerale, nell'organizzazione del nuovo ospedale di Soveria Mannelli, condotto al massimo livello nell'erogazione delle prestazioni e divenuto, sotto la sua direzione, fiore all'occhiello della sanità calabrese.
Da lì, il salto, meritato sul campo, alla direzione sanitaria dello "Jazzolino" di Vibo Valentia e infine di nuovo a Lamezia dove concluse la sua intensa attività professionale prima di andare in pensione.
Ora, chi sia consapevole delle immense difficoltà della sanità calabrese non può che riconoscere a Mario Chiaravalloti i pregi di un combattente alla "Che Guevara": non si è trattato, nel suo caso di guerre armate tra le montagne sudamericane, ma certo di straordinarie urgenze quotidiane alle quali occorreva fare fronte con decisioni immediate, inquadrando le funzioni del personale e facendo di necessità virtù con i mezzi disponibili, in uno scenario politico che negli anni diveniva sempre più lento, dilatorio e frammentato.
Tanto di cappello.
Questa di Mario Chiaravalloti dovrebbe essere una storia da raccontare: una storia esemplare di abnegazione silenziosa.
Il segno di una visione personale e professionale integra.
Nella quale trovava limpida collocazione anche la sua adesione ideale a un "umanesimo" egualitario di tradizione socialista.
Come scrisse acutamente il filosofo György Lukács:
«L’humanitas, cioè l’appassionato studio della sostanza umana dell’uomo, rientra nell’essenza di ogni letteratura e di ogni arte vera; né basta, perché siano chiamate umanistiche, che esse studino con passione l’uomo, […] ma esse debbono contemporaneamente difendere l’integrità dell’uomo contro tutte le tendenze che la intaccano, la umiliano, la deformano.»
Un umanesimo, quello di Mario Chiaravalloti, intriso di profonda sensibilità verso gli ultimi, i sofferenti, i più fragili.
Anche nei giorni di festa il suo dovere verso gli ammalati veniva prima di ogni altro impegno, anche familiare: l'esempio come sostanza, come sacrificio reale.
Nel suo spendersi per gli altri trovavano logica coincidenza le sue convinzioni politiche, quelle di medico e soprattutto di uomo del suo tempo, in una Calabria alla ricerca di uno sviluppo che passava necessariamente per le sue istituzioni pubbliche di servizio.
In questo solco, nella sua capacità professionale fatta necessariamente di relazioni umanamente operose, viene naturale immaginare valesse per lui una frase attribuita alla ricorrente figura evocata in questo breve racconto, il nostro "Che":
«L'unico modo di conoscere davvero i problemi è accostarsi a quanti vivono quei problemi e trarre da essi, da quello scambio, le conclusioni.»
A questo punto e a ben vedere, ormai il paragone perde distanza e men che meno appare irriverente: la passione del rivoluzionario argentino era intrisa di valori ideali e diretta al benessere di popoli diseredati, tanto quanto la passione professionale di Mario Chiaravalloti fosse concentrata nell'assicurare standard qualitativi elevati per l'erogazione di servizi essenziali di assistenza e cura, in un contesto di impetuose trasformazioni sociali e di precarietà e confusione crescenti.
Con una differenza negli effetti: il primo rimase travolto dai suoi sogni di combattente, seppur coltivati con il rigore narrato; al contrario, Mario Chiaravalloti ha saputo tenere la barra dritta e realizzare nel concreto dell'azione quotidiana quell'ideale di tutela della salute che era presente anche negli esordi del regionalismo.
In questo, ha lasciato un'impronta indelebile, cristallina, come è testimoniato da chi lo ha conosciuto e apprezzato.
Rara sintonia di fatti e di pensiero.
Ripercorrendo questa parabola umana e professionale ne ho tratto una convinzione altrettanto chiara: accompagnato dalla sua rettitudine, ha attraversato, senza mai flettere, un tempo che volgeva alla crisi.
Quel mondo di "pionieri" in una terra in cerca di riscatto non l'ha mai lasciato indifferente.
Ma non ne ha mutato le convinzioni, nemmeno scalfite dal progressivo sfilacciamento delle politiche pubbliche e sanitarie in particolare.
E beh: averne avuti di più medici e dirigenti del suo spessore!
Oggi, a poco più di un mese dalla sua scomparsa - le esequie sono state curate dall'impresa Onoranze Funebri "Filippo Polistena" - rimane archetipo di quella dote invocata da tanti: l'integrità.
Quella morale dell'uomo.
Quella etica dell'alto dirigente pubblico.
Quella profondamente deontologica del medico.
Gli sarebbe piaciuta una frase di Jorge Luis Borges:
«Forse l'etica è una scienza scomparsa dal mondo intero. Non fa niente, dovremo inventarla un'altra volta.»
Copyright © Gianpiero Menniti All rights reserved
Commenti
Posta un commento